A cura di Mirko Montelatici
MONTELATICI, Francesco, detto Cecco Bravo. – Nacque a Firenze, nel «popolo » di S. Ambrogio, il 15 novembre 1601, da Antonio di Giovanni e da Polita di Domenico Baggiani (Barsanti, 1976, pp. 36, 38 n. 10).
La famiglia era composta anche dalle
figlie Maria e Lisabetta, nate rispettivamente il 14 ottobre 1598 e
il 1° agosto 1606. La più piccola, mai sposatasi, come ricordato
dallo stesso Montelatici, si occupò durante la vita degli affari del
fratello, designando come erede alla sua morte, nel 1683, la
Compagnia di S. Giuseppe detta dei Legnaioli, tra le cui carte è
stato rinvenuto anche un piccolo archivio privato familiare,
particolarmente importante per la ricostruzione delle vicende
dell’artista (ibid., pp. 33-38; Matteoli, 1990).
Nonostante la consolidata notorietà
acquisita nel contesto artistico fiorentino, Filippo Baldinucci non
dedicò a Montelatici una biografia nelle Notizie de’ professori
del disegno, relegandolo a qualche sporadica notazione, talvolta
nemmeno troppo lusinghiera, a margine di altre vite. In realtà tale
assenza è spiegata dalla morte del letterato nel 1696, quando erano
stati pubblicati solo tre dei sei volumi di cui si compone l’opera
(Barsanti, 1986, III, p. 49). In questo modo si decretò il mancato
favore per Montelatici da parte della storiografia e il ricordo della
sua attività si limitò per lungo tempo a sintetici riferimenti
nelle guide fiorentine e nella letteratura erudita settecentesca.
Negli ultimi decenni del XX secolo un rinnovato interesse da parte di
alcuni studiosi ha portato alla scoperta del citato archivio e di
altri documenti, favorendo così una definizione sempre più
approfondita del profilo biografico e artistico di Montelatici.
Da Baldinucci ([1681-1728], IV, p. 311)
si ricava che il tirocinio del pittore avvenne sotto la guida di
Giovanni Bilivert, pittore di corte del granduca Cosimo II de’
Medici. L’indicazione trova riscontro in una lettera di Niccolò
Giugni, ministro della Guardaroba Medicea, datata 23 febbraio 1624,
in cui si propone di affidare ad alcuni allievi di Matteo Rosselli e
dello stesso Bilivert, tra i quali viene citato Montelatici,
l’esecuzione di copie da inviare in Francia di dipinti di proprietà
del cardinale Carlo de’ Medici, allora conservati a palazzo Pitti e
nel casino di S. Marco (Contini, 1985, pp. 188 s.). L’alunnato
presso Bilivert dovette rivelarsi ricco di stimoli, anche perché la
bottega si trovava in alcune stanze della Galleria degli Uffizi,
permettendo così agli allievi di studiare e copiare direttamente
capolavori antichi e moderni, nonché di entrare in contatto con
maestri forestieri quali Jacques Callot, al quale nel 1614 era stata
concessa come studio una delle camere adiacenti. Attendibile anche la
notizia di un successivo apprendistato dell’artista sotto la guida
di Sigismondo Coccapani (Orlandi, 1719), al quale potrebbe essersi
avvicinato dopo la morte di Cosimo II nel 1621, quando Bilivert non
fu più stipendiato dalla corte e, pur non essendogli stato revocato
l’uso degli spazi agli Uffizi per il suo atelier, smise di
coinvolgere quasi del tutto i collaboratori nelle committenze. La
frequentazione con il nuovo maestro non poté che essere di breve
durata, in quanto Coccapani era soprattutto architetto e ingegnere
(Masetti, 1962, pp. 65 s.).
Sebbene non documentata, fu invece
decisiva la collaborazione con Matteo Rosselli che in questi anni
ottenne alcune prestigiose committenze pittoriche da parte della
famiglia ducale e poteva peraltro offrire a Montelatici l’opportunità
di cimentarsi con la tecnica ad affresco, inusuale nella bottega di
Bilivert. Dopo essere stato chiamato dal cardinale Carlo de’ Medici
per decorare le stanze del casino di S. Marco, tra il 1623 e il 1624
Rosselli eseguì infatti, assieme allo stesso entourage, gli
affreschi delle quattro sale al pianterreno della villa di Poggio
Imperiale, su committenza di Maria Maddalena d’Austria, sorella
dell’imperatore Ferdinando II e vedova di Cosimo II. Benché ancora
controversa la partecipazione di Montelatici nella decorazione del
casino, la storiografia concorda nel rilevare un suo intervento nel
secondo cantiere, assegnandoli la lunetta con la Profetessa Maria
ringrazia il Signore dopo il passaggio del Mar Rosso, nella stanza
delle Eroine bibliche (Barsanti, 1986, III, p. 49), dove già si
preannuncia quell’inclinazione, così caratteristica dell’intero
percorso dell’artista, a recepire le suggestioni più eccentriche
della pittura contemporanea fiorentina, in particolare di Domenico
Pugliani.
Un’attività indipendente del pittore
si registra almeno dal 1624, come si evince da alcune citazioni del
tribunale dell’Accademia del disegno, nelle quali comincia a essere
menzionato come Cecco Bravo.
Tale appellativo, tradizionalmente
connesso alla natura litigiosa del suo carattere, secondo quanto
tramandato dalle fonti (Lastri, 1795; Lanzi, 1809), sarebbe piuttosto
da riferire al concetto di «bravura», come enunciato da Baldinucci
nel Vocabolario toscano dell’arte del disegno, corrispondente a
«una certa fierezza o furia», propria di una pittura caratterizzata
da «colpi» che esibiscono «padronanza del pennello e de’colori».
Che per l’artista il soprannome rivestisse una connotazione
positiva si deduce dall’autoritratto inciso, datato 1656 (Firenze,
Biblioteca Marucelliana, vol. XCIX, n. 71), in cui si firma appunto
«Franc.us Montelatic. us ab egregiis suis picturis nobilique in
Flor.na Accademia magistero Ceccus Bravus vocatus» (Cecco Bravo... ,
1999, p. 15).
Il 14 febbraio 1625 gli fu allogata da
parte dell’arcidiacono Pietro Niccolini, poi arcivescovo di Firenze
dal 1632, una pala d’altare con S. Nicola di Bari libera tre
giovani condannati a morte per la chiesa di S. Simeone, ora in
collezione privata (Pagliarulo, 1996, pp. 31-40, 47 s.). Nel
contratto viene specificamente indicato che, se l’opera non fosse
stata ritenuta all’altezza, non sarebbe stata pagata e nemmeno
collocata nella cappella, indizio che l’artista ancora non godeva
della piena fiducia da parte dei committenti. In questa prima prova
documentata Montelatici prese a modello il quadro di Bilivert con S.
Elena che adora la Croce (Firenze, S. Croce) datato 1621, dal quale
deriva soprattutto l’eleganza disegnativa e il colore brillante,
elementi tipici della tradizione pittorica fiorentina. A questi anni
risalgono i primi impegni per l’Ordine dei servi di Maria, con i
quali l’artista istituì un rapporto sempre più stretto che trova
puntuale conferma nei documenti. Dalle Ricordanze del convento
dell’Annunziata a Firenze si evince, infatti, che tra il 1625 e
1630 eseguì otto ritratti, andati perduti, dei sette fondatori e di
un beato dell’Ordine, commissionatigli probabilmente dal padre
servita Ridolfo Gugliantini (Cecco Bravo..., 1999, p. 19).
Dal 20 giugno 1629 iniziò a pagare la
tassa per l’immatricolazione all’Accademia del disegno
fiorentina. Di tale istituzione divenne accademico il 9 agosto 1637 e
rimase membro fino al 1659, poco prima della sua partenza per
Innsbruck (Barsanti, 1986, III, p. 49); dal 1648 ricoprì anche il
ruolo di consigliere (Masetti, 1962, p. 21). Dal 1629 risulta altresì
titolare di una bottega presso Porta Rossa (Cecco Bravo..., 1999, p.
130). Entro la fine del terzo decennio dovette eseguire l’affresco
con la Vergine, s. Giovanni Evangelista e gli angeli, che inquadra un
Crocifisso del Beato Angelico nel chiostro del convento di S. Marco,
caratterizzato da chiari elementi neomanieristici, mutuati, in
particolare, da Andrea del Sarto e da Pontormo, per la monumentalità
delle figure e la giustapposizione degli accordi cromatici (Masetti,
1962, pp. 13-17, 79 s.).
La prova più significativa del credito
che Montelatici aveva acquisito presso i serviti fu il coinvolgimento
nella decorazione della cappella del capitolo nel convento
dell’Annunziata, documentata tra il 1632 e 1635, promossa da fra’
Serafino Lupi per celebrare la memoria di Angiolo Maria Montorsoli,
teologo, asceta e generale dell’Ordine.
L’artista fu incaricato di eseguire
le tele raffiguranti l’illustre prelato «in ginocchioni avanti il
Crocifisso in mezzo a i tre voti di Obbedienza, Povertà e Castità
figurati per quelle donne che lo coronano» e il suo transito,
affiancate da affreschi con figure allegoriche (Barsanti, 1986, III,
p. 49; Cecco Bravo..., 1999, pp. 19 s.). Sebbene perdute, di tali
opere rimane un dettagliato resoconto redatto nel 1701 in occasione
della ristrutturazione architettonica della cappella. Completava la
decorazione l’Elezione di Montorsoli a generale dell’Ordine, di
mano del pittore servita fra’ Donato Arsenio de’ Mascagni,
conservato nel convento fiorentino dei Sette Santi Fondatori. Il
programma iconografico fu redatto sulla base della biografia di
Montorsoli composta dal canonico Pandolfo Ricasoli, celebre teologo e
letterato, pubblicata in latino a Venezia, e tradotta in volgare nel
1632 proprio da fra’ Serafino. I due religiosi legati da profonda
amicizia e medesime frequentazioni spirituali, grazie ai loro legami
con la corte medicea, contribuirono, probabilmente, a far ottenere al
pittore alcuni prestigiosi incarichi negli anni successivi.
Contestualmente a tale committenza nel
1633 i serviti richiesero a Montelatici di continuare la decorazione
delle 26 lunette del chiostro della Ss. Annunziata a Pistoia con un
ciclo dedicato al beato Bonaventura Bonaccorsi, avviato nel 1601 da
Bernardino Poccetti, autore delle prime sei scene (Masetti, 1962, p.
136; D’Afflitto, 1992, pp. 70 s.; Cappellini, 1992, p. 246). Al
pittore furono assegnate altrettante lunette, nelle quali, sebbene
dovette adeguarsi alla pacata impostazione narrativa del
predecessore, introdusse una più libera gestualità delle figure
secondarie, debitrice delle incisioni di Jacques Callot. A questi
anni sono anche riferibili quattro dei dodici pannelli di un fregio
con Giuochi di fanciulli in una sala al pianterreno della villa a
Mezzomonte, da poco acquistata dal cardinale Gian Carlo de’Medici,
la cui vena caricaturale mostra un’ulteriore evoluzione in senso
grottesco del pittore (Del Bravo, 1980, pp. 51 s.).
Nel luglio 1636 Montelatici iniziò gli
affreschi dello studio di casa Buonarroti, ultima delle quattro
stanze di rappresentanza poste al piano nobile del palazzo, recanti
sulle pareti un ciclo ideato dallo stesso committente, Michelangelo
Buonarroti il Giovane, volto a esaltare il primato culturale di
Firenze attraverso gli illustri personaggi che l’avevano resa
famosa nelle lettere, nella scienza e nel diritto (Procacci, 1965).
Sulla volta, la personificazione della
Fama con putti alati offrì la possibilità all’artista di
cimentarsi con la rappresentazione di una scena illusionisticamente
scorciata, uno dei temi per eccellenza della poetica figurativa
barocca, risolta però in maniera contraddittoria: solamente gli
elementi architettonici e gli amorini rispettano una corretta visione
prospettica, alla quale invece sfugge la raffigurazione femminile al
centro. Dal punto di vista stilistico, alle componenti di gusto
cinquecentesco, ispirate soprattutto alla lunetta di Pontormo con
Vertumno e Pomona nella villa di Poggio a Caiano, si unisce un
carattere beffardo, quasi canzonatorio caratterizzante non solo gli
amorini e le raffinatissime grisailles a soggetto classico che
completano il soffitto, ma soprattutto i ritratti e le pose dei
Letterati e dei Matematici e scienziati sulle pareti.
L’interpretazione antiaccademica
delle scene principali, fu, con ogni probabilità, la causa di forti
contrasti con Buonarroti, che decise di sostituire il pittore già
nel mese di settembre con Pugliani e Rosselli, cui spettò il compito
di concludere la decorazione nella primavera successiva.
Tra l’ottobre 1637 e il giugno
dell’anno successivo Montelatici ricevette la cospicua cifra di 400
scudi per un fregio, non più esistente «nello stanzone su ad alto
dove stava il S. Principe Leopoldo» a palazzo Pitti, da porre in
relazione ai lavori di ristrutturazione per le celebrazioni delle
nozze del granduca Ferdinando II con Vittoria Della Rovere (Ewald,
1960, p. 348 n. 23).
All’estate del 1638 va fatto risalire
l’affresco con S. Vitale e i figli per la nuova sacrestia
dell’Annunziata a Firenze, commissionato da Alessandro e Antonio
Medici, il cui padre era un ricco ebreo convertitosi al cristianesimo
(Cecco Bravo..., 1999, p. 30). Motivo dominante della composizione è
l’utilizzo della luce per ottenere effetti di coinvolgimento
emotivo, ulteriormente enfatizzato dalle violente deformazioni
fisionomiche dei personaggi, che sembra prendere come riferimento
l’Esaltazione di Maria di Jacopo da Empoli in S. Remigio.
Nell’ottobre dello stesso anno era impegnato nella realizzazione di
due lunette della parete settentrionale nel salone degli Argenti,
sempre a palazzo Pitti (Lorenzo il Magnifico apportatore di pace e
Lorenzo accoglie Apollo e le Muse), completate entro l’estate del
1639 (Campbell, 1966).
Quasi inaspettata l’eleganza che
contraddistingue soprattutto la seconda scena, modellata sui
raffinati canoni estetici di Francesco Furini, attivo nella parete
opposta del salone dal 1639. L’uso di una tavolozza con cromatismi
più fluidi e trasparenti rimanda invece a suggestioni derivate da
Pietro da Cortona, che aveva da poco completato gli affreschi nella
stanza della Stufa.
Quest’inclinazione verso una maniera
morbida e sensuale, così vicina alle istanze di bellezza ideale
proposte da Furini, si rileva anche nel dipinto con Ruggero e
Angelica (Chicago, The University of Chicago, Smart Museum of art),
databile al 1640 circa (Barsanti, 1986, I, p. 362).
L’opera anticipa, infatti, quella
tendenza sviluppata negli anni successivi ad accentuare la carica
emotiva del soggetto mediante un progressivo disfacimento della
compattezza cromatica, su evidente suggestione della pittura veneta,
forse conosciuta direttamente attraverso un ipotetico viaggio in
Laguna e in Emilia a cavallo del quarto decennio (Cecco Bravo...,
1999, p. 30).
Riflesso più immediato di questo
soggiorno sarebbe il riquadro con i Ss. Zenobi, Antonino e Carlo
Borromeo sul soffitto dell’oratorio di S. Francesco dei Vanchetoni
a Firenze, eseguito proprio tra la fine del 1639 e l’inizio del
1640, che si distingue per un accentuato interesse coloristico unito
ad una rinnovata morbidezza materica di chiaro sapore correggesco
(Barsanti, 1978, pp. 123 s.).
Il periodo successivo è caratterizzato
dalla quasi completa esclusione da commissioni pubbliche a Firenze,
spiegabile innanzitutto con il processo per eresia intentato tra il
1640 e il 1641 a Ricasoli e a Lupi. A partire da allora la produzione
di Montelatici è sempre più contrassegnata da committenze
periferiche o da piccoli quadri ‘da stanza’, genere allora molto
in voga a Firenze, per le quali è spesso arduo stabilire una
corretta sequenza cronologica a causa dell’assenza di
documentazione.
Tra i pochi punti fermi nella
produzione dell’artista di quegli anni è l’Andata al Calvario
per la chiesa della Madonna dei Galletti a Pisa, documentabile al
1642 (Pagliarulo, 1991, pp. 35- 37). Nel 1645 dovette eseguire
l’affresco con la Prudenza, la Gloria e il Tempo nella sala delle
Porcellane nel mezzanino di palazzo Pitti (Masetti, 1962, pp. 37 s.,
88, n. 14).
Dopo il 1650 la maniera di Montelatici
si caratterizza per una sempre maggiore inquietudine formale,
dominata da tonalità cupe, volta verso una progressiva
smaterializzazione della profondità prospettica, graduata da
pennellate successivamente più sfumate in corrispondenza dello
sfondo. Ne sono esemplare testimonianza alcune pitture da cavalletto
per collezionisti privati, quali Erminia tra i pastori e il suo
pendant con Apollo e Marsia della Pinacoteca civica di Pistoia
(Ewald, 1960, pp. 344-347; Cecco Bravo..., 1999, pp. 92 s.), databili
al 1652-53, ma soprattutto Giuseppe e la moglie di Putifarre
(Firenze, Galleria degli Uffizi), Cristo confortato dagli angeli (già
coll. Bardi Serzelli) e Apollo e Marsia (Ravenna, Pinacoteca
comunale), che richiamano la produzione dell’ultimo Tiziano
(Barsanti, 1986, I, p. 368) e che per libertà espressiva trovano
corrispondenza a Firenze solo nella maniera di Felice Ficherelli
(Gregori, 1974, pp. 226 s.). La libertà creativa dell’artista
viene comunque sottoposta a un più rigido controllo formale
nell’ambito delle committenze ufficiali, come nella pala
raffigurante la Madonna del Carmelo, s. Maria Maddalena e s. Caterina
d’Alessandria per il santuario mariano a San Romano, presso Pisa,
documentata al 1655 (Cecco Bravo..., 1999, p. 92).
Il 26 novembre 1656 Montelatici ebbe il
titolo di «Maestro del Naturale» dall’Accademia del disegno a
Firenze, ma la nomina, dettata dalla rinuncia di Simone Pignoni, non
si deve considerare un’indicazione di rinnovata popolarità
dell’artista (Barsanti, 1986, III, p. 50). L’anno precedente,
infatti, il suo nome non compare tra i 17 più importanti pittori
fiorentini votati da alcuni testimoni, il cui parere era stato
richiesto nell’ambito di un’istruttoria per un importante
processo riguardante l’operato del pittore Domenico Pieratti
(Barsanti, 1986, p. 50).
Il 1° giugno 1660 Montelatici si
trasferì a Innsbruck presso la corte dell’arciduca Ferdinando
Carlo d’Austria e di Anna de’- Medici, conti del Tirolo
(Matteoli, 1990, p. 99), spinto forse da un crescente senso di
estraneità nei confronti del contesto artistico fiorentino, dove si
andavano ormai affermando tendenze sempre più distanti dal suo
spirito antiaccademico.
Nell’inventario della sua casa,
redatto in occasione del viaggio austriaco, sono elencati, oltre a
163 dipinti autografi, anche «una cassa di camera piena di più
sorte di disegni» (Barsanti, 1986, p. 50). Particolare rilievo è
stato, infatti, riconosciuto alla produzione grafica dell’artista
conservata per la maggior parte presso il Gabinetto dei disegni e
delle stampe degli Uffizi, la Biblioteca Marucelliana di Firenze, il
Louvre di Parigi e la National Gallery di Edimburgo. Prevalentemente
si tratta di rappresentazioni di nudi virili, le cosiddette
accademie, eseguite con tratto rapido e spezzettato, spesso
fortemente chiaroscurate, in aperto disprezzo delle convenzioni
disegnative. Si distinguono per la loro carica fortemente visionaria
alcuni grandi fogli dal soggetto non ancora interpretato, definiti
«sogni» da Francesco Maria Niccolò Gabburri, luogotenente della
Accademia del disegno di Firenze, che li aveva acquistati dalla
collezione Baldinucci.
Della produzione realizzata durante il
soggiorno austriaco si conoscono solamente la tela con l’Aurora
(Vienna, Kunsthistorisches Museum) e il Ritratto di Ferdinando Carlo
(Innsbruck, Schloss Ambras), lasciato incompiuto dal fiammingo Justus
Sustermans nel 1656 e portato a termine da Montelatici quattro anni
dopo (Ewald, 1960, p. 31).
L’11 dicembre 1661 due lettere, di
cui una scritta da Jacopo Benvenuti, allievo di Montelatici e suo
compagno nel viaggio in Tirolo, annunciavano le gravissime condizioni
in cui versava il pittore, il quale morì a Innsbruck, con ogni
probabilità nella stessa data (Barsanti, 1986, III, p. 50).
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de’ professori del disegno…(1681-1728), con nota critica e suppl.
a cura di P. Barocchi, IV, Firenze 1974, pp. 263, 264, 311, 633; VI,
1975, p. 185; P.A. Orlandi, Abcedario pittorico, Bologna 1719, p.
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L. Lanzi, Storia pittorica della Italia (1809), a cura di M. Capucci,
I, Firenze 1968, p. 167; G. Ewald, Hitherto unknown works by Cecco
Bravo, in The Burlington Magazine, CII (1960), pp. 343-352; A.M.
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(1991), 4-5, pp. 33-43; C. D’Afflitto, Da Firenze a Pistoia: note
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