30 giu 2016

FRANCESCO MONTELATICI (Cecco Bravo)

A cura di Mirko Montelatici


MONTELATICI, Francesco, detto Cecco Bravo. – Nacque a Firenze, nel «popolo » di S. Ambrogio, il 15 novembre 1601, da Antonio di Giovanni e da Polita di Domenico Baggiani (Barsanti, 1976, pp. 36, 38 n. 10).

La famiglia era composta anche dalle figlie Maria e Lisabetta, nate rispettivamente il 14 ottobre 1598 e il 1° agosto 1606. La più piccola, mai sposatasi, come ricordato dallo stesso Montelatici, si occupò durante la vita degli affari del fratello, designando come erede alla sua morte, nel 1683, la Compagnia di S. Giuseppe detta dei Legnaioli, tra le cui carte è stato rinvenuto anche un piccolo archivio privato familiare, particolarmente importante per la ricostruzione delle vicende dell’artista (ibid., pp. 33-38; Matteoli, 1990).

Nonostante la consolidata notorietà acquisita nel contesto artistico fiorentino, Filippo Baldinucci non dedicò a Montelatici una biografia nelle Notizie de’ professori del disegno, relegandolo a qualche sporadica notazione, talvolta nemmeno troppo lusinghiera, a margine di altre vite. In realtà tale assenza è spiegata dalla morte del letterato nel 1696, quando erano stati pubblicati solo tre dei sei volumi di cui si compone l’opera (Barsanti, 1986, III, p. 49). In questo modo si decretò il mancato favore per Montelatici da parte della storiografia e il ricordo della sua attività si limitò per lungo tempo a sintetici riferimenti nelle guide fiorentine e nella letteratura erudita settecentesca. Negli ultimi decenni del XX secolo un rinnovato interesse da parte di alcuni studiosi ha portato alla scoperta del citato archivio e di altri documenti, favorendo così una definizione sempre più approfondita del profilo biografico e artistico di Montelatici.

Da Baldinucci ([1681-1728], IV, p. 311) si ricava che il tirocinio del pittore avvenne sotto la guida di Giovanni Bilivert, pittore di corte del granduca Cosimo II de’ Medici. L’indicazione trova riscontro in una lettera di Niccolò Giugni, ministro della Guardaroba Medicea, datata 23 febbraio 1624, in cui si propone di affidare ad alcuni allievi di Matteo Rosselli e dello stesso Bilivert, tra i quali viene citato Montelatici, l’esecuzione di copie da inviare in Francia di dipinti di proprietà del cardinale Carlo de’ Medici, allora conservati a palazzo Pitti e nel casino di S. Marco (Contini, 1985, pp. 188 s.). L’alunnato presso Bilivert dovette rivelarsi ricco di stimoli, anche perché la bottega si trovava in alcune stanze della Galleria degli Uffizi, permettendo così agli allievi di studiare e copiare direttamente capolavori antichi e moderni, nonché di entrare in contatto con maestri forestieri quali Jacques Callot, al quale nel 1614 era stata concessa come studio una delle camere adiacenti. Attendibile anche la notizia di un successivo apprendistato dell’artista sotto la guida di Sigismondo Coccapani (Orlandi, 1719), al quale potrebbe essersi avvicinato dopo la morte di Cosimo II nel 1621, quando Bilivert non fu più stipendiato dalla corte e, pur non essendogli stato revocato l’uso degli spazi agli Uffizi per il suo atelier, smise di coinvolgere quasi del tutto i collaboratori nelle committenze. La frequentazione con il nuovo maestro non poté che essere di breve durata, in quanto Coccapani era soprattutto architetto e ingegnere (Masetti, 1962, pp. 65 s.).

Sebbene non documentata, fu invece decisiva la collaborazione con Matteo Rosselli che in questi anni ottenne alcune prestigiose committenze pittoriche da parte della famiglia ducale e poteva peraltro offrire a Montelatici l’opportunità di cimentarsi con la tecnica ad affresco, inusuale nella bottega di Bilivert. Dopo essere stato chiamato dal cardinale Carlo de’ Medici per decorare le stanze del casino di S. Marco, tra il 1623 e il 1624 Rosselli eseguì infatti, assieme allo stesso entourage, gli affreschi delle quattro sale al pianterreno della villa di Poggio Imperiale, su committenza di Maria Maddalena d’Austria, sorella dell’imperatore Ferdinando II e vedova di Cosimo II. Benché ancora controversa la partecipazione di Montelatici nella decorazione del casino, la storiografia concorda nel rilevare un suo intervento nel secondo cantiere, assegnandoli la lunetta con la Profetessa Maria ringrazia il Signore dopo il passaggio del Mar Rosso, nella stanza delle Eroine bibliche (Barsanti, 1986, III, p. 49), dove già si preannuncia quell’inclinazione, così caratteristica dell’intero percorso dell’artista, a recepire le suggestioni più eccentriche della pittura contemporanea fiorentina, in particolare di Domenico Pugliani.

Un’attività indipendente del pittore si registra almeno dal 1624, come si evince da alcune citazioni del tribunale dell’Accademia del disegno, nelle quali comincia a essere menzionato come Cecco Bravo.

Tale appellativo, tradizionalmente connesso alla natura litigiosa del suo carattere, secondo quanto tramandato dalle fonti (Lastri, 1795; Lanzi, 1809), sarebbe piuttosto da riferire al concetto di «bravura», come enunciato da Baldinucci nel Vocabolario toscano dell’arte del disegno, corrispondente a «una certa fierezza o furia», propria di una pittura caratterizzata da «colpi» che esibiscono «padronanza del pennello e de’colori». Che per l’artista il soprannome rivestisse una connotazione positiva si deduce dall’autoritratto inciso, datato 1656 (Firenze, Biblioteca Marucelliana, vol. XCIX, n. 71), in cui si firma appunto «Franc.us Montelatic. us ab egregiis suis picturis nobilique in Flor.na Accademia magistero Ceccus Bravus vocatus» (Cecco Bravo... , 1999, p. 15).

Il 14 febbraio 1625 gli fu allogata da parte dell’arcidiacono Pietro Niccolini, poi arcivescovo di Firenze dal 1632, una pala d’altare con S. Nicola di Bari libera tre giovani condannati a morte per la chiesa di S. Simeone, ora in collezione privata (Pagliarulo, 1996, pp. 31-40, 47 s.). Nel contratto viene specificamente indicato che, se l’opera non fosse stata ritenuta all’altezza, non sarebbe stata pagata e nemmeno collocata nella cappella, indizio che l’artista ancora non godeva della piena fiducia da parte dei committenti. In questa prima prova documentata Montelatici prese a modello il quadro di Bilivert con S. Elena che adora la Croce (Firenze, S. Croce) datato 1621, dal quale deriva soprattutto l’eleganza disegnativa e il colore brillante, elementi tipici della tradizione pittorica fiorentina. A questi anni risalgono i primi impegni per l’Ordine dei servi di Maria, con i quali l’artista istituì un rapporto sempre più stretto che trova puntuale conferma nei documenti. Dalle Ricordanze del convento dell’Annunziata a Firenze si evince, infatti, che tra il 1625 e 1630 eseguì otto ritratti, andati perduti, dei sette fondatori e di un beato dell’Ordine, commissionatigli probabilmente dal padre servita Ridolfo Gugliantini (Cecco Bravo..., 1999, p. 19).

Dal 20 giugno 1629 iniziò a pagare la tassa per l’immatricolazione all’Accademia del disegno fiorentina. Di tale istituzione divenne accademico il 9 agosto 1637 e rimase membro fino al 1659, poco prima della sua partenza per Innsbruck (Barsanti, 1986, III, p. 49); dal 1648 ricoprì anche il ruolo di consigliere (Masetti, 1962, p. 21). Dal 1629 risulta altresì titolare di una bottega presso Porta Rossa (Cecco Bravo..., 1999, p. 130). Entro la fine del terzo decennio dovette eseguire l’affresco con la Vergine, s. Giovanni Evangelista e gli angeli, che inquadra un Crocifisso del Beato Angelico nel chiostro del convento di S. Marco, caratterizzato da chiari elementi neomanieristici, mutuati, in particolare, da Andrea del Sarto e da Pontormo, per la monumentalità delle figure e la giustapposizione degli accordi cromatici (Masetti, 1962, pp. 13-17, 79 s.).

La prova più significativa del credito che Montelatici aveva acquisito presso i serviti fu il coinvolgimento nella decorazione della cappella del capitolo nel convento dell’Annunziata, documentata tra il 1632 e 1635, promossa da fra’ Serafino Lupi per celebrare la memoria di Angiolo Maria Montorsoli, teologo, asceta e generale dell’Ordine.

L’artista fu incaricato di eseguire le tele raffiguranti l’illustre prelato «in ginocchioni avanti il Crocifisso in mezzo a i tre voti di Obbedienza, Povertà e Castità figurati per quelle donne che lo coronano» e il suo transito, affiancate da affreschi con figure allegoriche (Barsanti, 1986, III, p. 49; Cecco Bravo..., 1999, pp. 19 s.). Sebbene perdute, di tali opere rimane un dettagliato resoconto redatto nel 1701 in occasione della ristrutturazione architettonica della cappella. Completava la decorazione l’Elezione di Montorsoli a generale dell’Ordine, di mano del pittore servita fra’ Donato Arsenio de’ Mascagni, conservato nel convento fiorentino dei Sette Santi Fondatori. Il programma iconografico fu redatto sulla base della biografia di Montorsoli composta dal canonico Pandolfo Ricasoli, celebre teologo e letterato, pubblicata in latino a Venezia, e tradotta in volgare nel 1632 proprio da fra’ Serafino. I due religiosi legati da profonda amicizia e medesime frequentazioni spirituali, grazie ai loro legami con la corte medicea, contribuirono, probabilmente, a far ottenere al pittore alcuni prestigiosi incarichi negli anni successivi.

Contestualmente a tale committenza nel 1633 i serviti richiesero a Montelatici di continuare la decorazione delle 26 lunette del chiostro della Ss. Annunziata a Pistoia con un ciclo dedicato al beato Bonaventura Bonaccorsi, avviato nel 1601 da Bernardino Poccetti, autore delle prime sei scene (Masetti, 1962, p. 136; D’Afflitto, 1992, pp. 70 s.; Cappellini, 1992, p. 246). Al pittore furono assegnate altrettante lunette, nelle quali, sebbene dovette adeguarsi alla pacata impostazione narrativa del predecessore, introdusse una più libera gestualità delle figure secondarie, debitrice delle incisioni di Jacques Callot. A questi anni sono anche riferibili quattro dei dodici pannelli di un fregio con Giuochi di fanciulli in una sala al pianterreno della villa a Mezzomonte, da poco acquistata dal cardinale Gian Carlo de’Medici, la cui vena caricaturale mostra un’ulteriore evoluzione in senso grottesco del pittore (Del Bravo, 1980, pp. 51 s.).

Nel luglio 1636 Montelatici iniziò gli affreschi dello studio di casa Buonarroti, ultima delle quattro stanze di rappresentanza poste al piano nobile del palazzo, recanti sulle pareti un ciclo ideato dallo stesso committente, Michelangelo Buonarroti il Giovane, volto a esaltare il primato culturale di Firenze attraverso gli illustri personaggi che l’avevano resa famosa nelle lettere, nella scienza e nel diritto (Procacci, 1965).

Sulla volta, la personificazione della Fama con putti alati offrì la possibilità all’artista di cimentarsi con la rappresentazione di una scena illusionisticamente scorciata, uno dei temi per eccellenza della poetica figurativa barocca, risolta però in maniera contraddittoria: solamente gli elementi architettonici e gli amorini rispettano una corretta visione prospettica, alla quale invece sfugge la raffigurazione femminile al centro. Dal punto di vista stilistico, alle componenti di gusto cinquecentesco, ispirate soprattutto alla lunetta di Pontormo con Vertumno e Pomona nella villa di Poggio a Caiano, si unisce un carattere beffardo, quasi canzonatorio caratterizzante non solo gli amorini e le raffinatissime grisailles a soggetto classico che completano il soffitto, ma soprattutto i ritratti e le pose dei Letterati e dei Matematici e scienziati sulle pareti.

L’interpretazione antiaccademica delle scene principali, fu, con ogni probabilità, la causa di forti contrasti con Buonarroti, che decise di sostituire il pittore già nel mese di settembre con Pugliani e Rosselli, cui spettò il compito di concludere la decorazione nella primavera successiva.

Tra l’ottobre 1637 e il giugno dell’anno successivo Montelatici ricevette la cospicua cifra di 400 scudi per un fregio, non più esistente «nello stanzone su ad alto dove stava il S. Principe Leopoldo» a palazzo Pitti, da porre in relazione ai lavori di ristrutturazione per le celebrazioni delle nozze del granduca Ferdinando II con Vittoria Della Rovere (Ewald, 1960, p. 348 n. 23).

All’estate del 1638 va fatto risalire l’affresco con S. Vitale e i figli per la nuova sacrestia dell’Annunziata a Firenze, commissionato da Alessandro e Antonio Medici, il cui padre era un ricco ebreo convertitosi al cristianesimo (Cecco Bravo..., 1999, p. 30). Motivo dominante della composizione è l’utilizzo della luce per ottenere effetti di coinvolgimento emotivo, ulteriormente enfatizzato dalle violente deformazioni fisionomiche dei personaggi, che sembra prendere come riferimento l’Esaltazione di Maria di Jacopo da Empoli in S. Remigio. Nell’ottobre dello stesso anno era impegnato nella realizzazione di due lunette della parete settentrionale nel salone degli Argenti, sempre a palazzo Pitti (Lorenzo il Magnifico apportatore di pace e Lorenzo accoglie Apollo e le Muse), completate entro l’estate del 1639 (Campbell, 1966).

Quasi inaspettata l’eleganza che contraddistingue soprattutto la seconda scena, modellata sui raffinati canoni estetici di Francesco Furini, attivo nella parete opposta del salone dal 1639. L’uso di una tavolozza con cromatismi più fluidi e trasparenti rimanda invece a suggestioni derivate da Pietro da Cortona, che aveva da poco completato gli affreschi nella stanza della Stufa.

Quest’inclinazione verso una maniera morbida e sensuale, così vicina alle istanze di bellezza ideale proposte da Furini, si rileva anche nel dipinto con Ruggero e Angelica (Chicago, The University of Chicago, Smart Museum of art), databile al 1640 circa (Barsanti, 1986, I, p. 362).

L’opera anticipa, infatti, quella tendenza sviluppata negli anni successivi ad accentuare la carica emotiva del soggetto mediante un progressivo disfacimento della compattezza cromatica, su evidente suggestione della pittura veneta, forse conosciuta direttamente attraverso un ipotetico viaggio in Laguna e in Emilia a cavallo del quarto decennio (Cecco Bravo..., 1999, p. 30).

Riflesso più immediato di questo soggiorno sarebbe il riquadro con i Ss. Zenobi, Antonino e Carlo Borromeo sul soffitto dell’oratorio di S. Francesco dei Vanchetoni a Firenze, eseguito proprio tra la fine del 1639 e l’inizio del 1640, che si distingue per un accentuato interesse coloristico unito ad una rinnovata morbidezza materica di chiaro sapore correggesco (Barsanti, 1978, pp. 123 s.).

Il periodo successivo è caratterizzato dalla quasi completa esclusione da commissioni pubbliche a Firenze, spiegabile innanzitutto con il processo per eresia intentato tra il 1640 e il 1641 a Ricasoli e a Lupi. A partire da allora la produzione di Montelatici è sempre più contrassegnata da committenze periferiche o da piccoli quadri ‘da stanza’, genere allora molto in voga a Firenze, per le quali è spesso arduo stabilire una corretta sequenza cronologica a causa dell’assenza di documentazione.

Tra i pochi punti fermi nella produzione dell’artista di quegli anni è l’Andata al Calvario per la chiesa della Madonna dei Galletti a Pisa, documentabile al 1642 (Pagliarulo, 1991, pp. 35- 37). Nel 1645 dovette eseguire l’affresco con la Prudenza, la Gloria e il Tempo nella sala delle Porcellane nel mezzanino di palazzo Pitti (Masetti, 1962, pp. 37 s., 88, n. 14).

Dopo il 1650 la maniera di Montelatici si caratterizza per una sempre maggiore inquietudine formale, dominata da tonalità cupe, volta verso una progressiva smaterializzazione della profondità prospettica, graduata da pennellate successivamente più sfumate in corrispondenza dello sfondo. Ne sono esemplare testimonianza alcune pitture da cavalletto per collezionisti privati, quali Erminia tra i pastori e il suo pendant con Apollo e Marsia della Pinacoteca civica di Pistoia (Ewald, 1960, pp. 344-347; Cecco Bravo..., 1999, pp. 92 s.), databili al 1652-53, ma soprattutto Giuseppe e la moglie di Putifarre (Firenze, Galleria degli Uffizi), Cristo confortato dagli angeli (già coll. Bardi Serzelli) e Apollo e Marsia (Ravenna, Pinacoteca comunale), che richiamano la produzione dell’ultimo Tiziano (Barsanti, 1986, I, p. 368) e che per libertà espressiva trovano corrispondenza a Firenze solo nella maniera di Felice Ficherelli (Gregori, 1974, pp. 226 s.). La libertà creativa dell’artista viene comunque sottoposta a un più rigido controllo formale nell’ambito delle committenze ufficiali, come nella pala raffigurante la Madonna del Carmelo, s. Maria Maddalena e s. Caterina d’Alessandria per il santuario mariano a San Romano, presso Pisa, documentata al 1655 (Cecco Bravo..., 1999, p. 92).

Il 26 novembre 1656 Montelatici ebbe il titolo di «Maestro del Naturale» dall’Accademia del disegno a Firenze, ma la nomina, dettata dalla rinuncia di Simone Pignoni, non si deve considerare un’indicazione di rinnovata popolarità dell’artista (Barsanti, 1986, III, p. 50). L’anno precedente, infatti, il suo nome non compare tra i 17 più importanti pittori fiorentini votati da alcuni testimoni, il cui parere era stato richiesto nell’ambito di un’istruttoria per un importante processo riguardante l’operato del pittore Domenico Pieratti (Barsanti, 1986, p. 50).

Il 1° giugno 1660 Montelatici si trasferì a Innsbruck presso la corte dell’arciduca Ferdinando Carlo d’Austria e di Anna de’- Medici, conti del Tirolo (Matteoli, 1990, p. 99), spinto forse da un crescente senso di estraneità nei confronti del contesto artistico fiorentino, dove si andavano ormai affermando tendenze sempre più distanti dal suo spirito antiaccademico.

Nell’inventario della sua casa, redatto in occasione del viaggio austriaco, sono elencati, oltre a 163 dipinti autografi, anche «una cassa di camera piena di più sorte di disegni» (Barsanti, 1986, p. 50). Particolare rilievo è stato, infatti, riconosciuto alla produzione grafica dell’artista conservata per la maggior parte presso il Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi, la Biblioteca Marucelliana di Firenze, il Louvre di Parigi e la National Gallery di Edimburgo. Prevalentemente si tratta di rappresentazioni di nudi virili, le cosiddette accademie, eseguite con tratto rapido e spezzettato, spesso fortemente chiaroscurate, in aperto disprezzo delle convenzioni disegnative. Si distinguono per la loro carica fortemente visionaria alcuni grandi fogli dal soggetto non ancora interpretato, definiti «sogni» da Francesco Maria Niccolò Gabburri, luogotenente della Accademia del disegno di Firenze, che li aveva acquistati dalla collezione Baldinucci.

Della produzione realizzata durante il soggiorno austriaco si conoscono solamente la tela con l’Aurora (Vienna, Kunsthistorisches Museum) e il Ritratto di Ferdinando Carlo (Innsbruck, Schloss Ambras), lasciato incompiuto dal fiammingo Justus Sustermans nel 1656 e portato a termine da Montelatici quattro anni dopo (Ewald, 1960, p. 31).

L’11 dicembre 1661 due lettere, di cui una scritta da Jacopo Benvenuti, allievo di Montelatici e suo compagno nel viaggio in Tirolo, annunciavano le gravissime condizioni in cui versava il pittore, il quale morì a Innsbruck, con ogni probabilità nella stessa data (Barsanti, 1986, III, p. 50).


Fonti e Bibl.: F. Baldinucci, Notizie de’ professori del disegno…(1681-1728), con nota critica e suppl. a cura di P. Barocchi, IV, Firenze 1974, pp. 263, 264, 311, 633; VI, 1975, p. 185; P.A. Orlandi, Abcedario pittorico, Bologna 1719, p. 167; M. Lastri, L’Etruria pittrice, II, Firenze 1795, tav. LXXXIII; L. Lanzi, Storia pittorica della Italia (1809), a cura di M. Capucci, I, Firenze 1968, p. 167; G. Ewald, Hitherto unknown works by Cecco Bravo, in The Burlington Magazine, CII (1960), pp. 343-352; A.M. Masetti, Cecco Bravo pittore toscano del Seicento, Venezia 1962; U. Procacci, La Casa Buonarroti a Firenze, Milano 1965, ad ind.; M. Campbell, Medici patronage and the Baroque: a reapprisal, in The Art Bulletin, XLVIII (1966), pp. 133-166; M. Gregori, A crosssection of Florentine Seicento painting. The Piero Bigongiari Collection, in Apollo, C (1974), pp. 222- 224, 226 s., 229; A. Barsanti, Nuove fonti per «Cecco Bravo» pittore fiorentino, in Granducato, 1976, n. 2, pp. 33-38; Id., Una confraternita dimenticata, in Paradigma, II (1978) pp. 115-133; C. Del Bravo, La «fiorita gioventù» del Volterrano, in Artibus et Historiae, I (1980), 1, pp. 47-68; R. Contini, Bilivert. Saggio di ricostruzione, Firenze 1985, ad ind.; A. Barsanti, in Il Seicento Fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III (catal.), a cura di G. Guidi - D. Marcucci, Firenze 1986, I, pp. 354-373; II, pp. 308-316; III, pp. 48- 51; A. Matteoli, Documenti su Cecco Bravo, in Rivista d’arte, XLII (1990), pp. 95-146; G. Pagliarulo, Appunti fiorentini e alcune ipotesi intorno al soffitto della Madonna dei Galletti a Pisa, in Antichità viva, XXX (1991), 4-5, pp. 33-43; C. D’Afflitto, Da Firenze a Pistoia: note sulle presenze fiorentine nei cicli pittorici pistoiesi dalla fine del Cinquecento alla metà del Seicento, in Chiostri seicenteschi a Pistoia, a cura di F. Falletti, Firenze 1992, pp. 63-74; P. Cappellini, Appendice documentaria, ibid., pp. 241-255; G. Pagliarulo, Juvenilia di «Cecco Bravo», in Paradigma, XI (1996), pp. 3-48; Cecco Bravo pittore senza regola. Firenze 1601 - Innsbruck 1661 (catal., Firenze), a cura di A. Barsanti - R. Contini, Milano 1999; A. Nesi, Un dipinto di Cecco Bravo a Loreto, in Notizie da Palazzo Albani, XXX-XXXI ( 2001- 02), pp. 183-187; M. Gregori, Non Cecco Bravo, ma Francesco Furini, in Arte collezionismo conservazione. Scritti in onore di Marco Chiarini, a cura di M.L. Chappel - M. Di Giampaolo - S. Padovani, Firenze, 2004, pp. 290-293; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXV, p. 86.